Chitarre

marzo 2, 2009

Siccome mi è stato fatto un appunto, lo colgo e racconto. 8 giorni, 3 concerti, 3 chitarre.

Sabato scorso, 21 febbraio, prendo Gio e la porto al concerto degli Oasis a Treviso, che ormai è un rito che io e lei ci portiam da quando eravamo insieme a Forlì e tra lo studio e gli appelli d’esame ogni tanto ce ne andavamo a vedere i due fratelli suonare. Quando c’erano. Perché una volta mancava Noel, che si era nel periodo di rottura tra i due e qualche concerto l’ha saltato. Un’altra, invece, mancava la voce di Liam, e allora dopo tre canzoni il tipo s’è arrabiato e ha lasciato lì il microfono e tutto il pubblico dell’Heineken Jammin’ Festival, quando ancora lo facevano all’autodromo dove, ancora, correva Schumacher e tutti si facevano la foto sulle righe della pole position.

"Two of a kind" Stavolta, invece, c’eran tutti: Liam col suo tamburello e le sue basette e Noel con le sue chitarre, e i fan tra il pubblico con le bandiere della Gran Bretagna legate sulle spalle. Ed è stato un concerto molto bello, con una scenografia semplice ma d’impatto: quattro maxischermi alle  spalle del palco che rimandavano bellissime inquadrature del gruppo. Io e Gio abbiam cantato anche stavolta, come quando all’alba tornavamo verso casa dopo qualche festa in una piazza Saffi deserta, però non è più proprio la stessa cosa, che vent’anni non ce li ho più. Ma va bene così.

Il sabato successivo, già dimenticate le note brit pop, vado ad ascoltare le chitarre sofferenti dei Marlene Kuntz, che invece, tolte le due canzoni e mezzo che ho ascoltato quando, appena uscito “Uno”, hanno cantato alla Notte Bianca di Ancona, era la prima volta che li vedevo. Un concerto insolito, in un piccolo teatro di provincia, in versione seduta, acustica.. ma neanche tanto. Godano quasi come un Cristo deposto, con i suoi capelli e la sua barba, e le sue braccia aperte mentre cantava, recitava, urlava, godeva o odiava. Non so da quanto non sentivo chitarre così distorte come nel brano con cui ha chiuso il concerto, nè vedevo qualcuno scuotere la testa come si faceva quando erano ancora gli anni Novanta e si ascoltava ancora il grunge. L’ho invidiato per come poteva stare lì sul palco ad urlare e l’ho temuto per la sensazione quasi di dolore fisico che mi ha fatto provare in certi passaggi. So solo che sono uscita da lì e per venti minuti son rimasta muta, perché tutta quella roba doveva evaporare.

Il giorno dopo, che poi è oggi, la terza chitarra, completamente diversa, di Emanuele Segre. Classica, senza amplificazione, e un pubblico di meno di cinquanta persone, in quei posti dove non solo senti ogni singola nota e ogni singola corda vibrare, ma senti quasi più forte persino il respiro del musicista. Che in certi momenti sembrava produrre musica non solo sottoforma di suono, ma anche di materia. Che muoveva le mani dalle corde della chitarra allo spazio davanti a sè, come a tirarla via dallo strumento quella musica e lasciarla nell’aria.